
Il massacro di Gaza nega le ragioni dell’identità europea. E ci riguarda da vicino
di Gianni Cuperlo
Alcuni mesi fa su La Stampa era uscita un’intervista di Francesca Mannocchi all’ex direttore dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin. Diceva di avere finalmente compreso ciò che avrebbe deciso di quella guerra infinita e lo descriveva così: “Noi avremo sicurezza solo quando loro avranno speranza”. Se non lo avete ancora fatto, entrate in una libreria e acquistate “il suicidio di Israele” di Anna Foa, con parole e profondità differenti potrete ritrovarvi lo stesso concetto. O ancora, due tra i più autorevoli storici israeliani (sono entrambi specializzati nella storia dell’Olocausto), Daniel Blatman e Amos Goldberg hanno pubblicato tempo addietro un articolo molto dettagliato e complesso che si conclude con questa frase: “Quello che succede a Gaza non è possibile paragonarlo né ad Auschwitz né a Treblinka ma appartiene alla stessa famiglia.
E cioè al crimine di genocidio”. Adesso tornate per un istante alle recenti sortite del ministro delle finanze del sesto governo Netanyahu. Si chiama Bezalel Yoel Smotrich, è un avvocato leader del partito di estrema destra religiosa, ha detto che su Gaza è necessario completare l’opera di “vera occupazione”. Il suo primo ministro (per il quale la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per crimini di guerra) ha chiosato il tutto con l’annuncio di una prossima “invasione massiccia”. Tutto ciò dopo il devastante pogrom di Hamas il 7 ottobre, le migliaia di esecuzioni di ebrei e il sequestro di centinaia di ostaggi. Tutto ciò anche dopo la rappresaglia israeliana costata sinora decine di migliaia di morti, donne, bambini, neonati uccisi dalle bombe, dal freddo e dalla fame.
Il traguardo dichiarato dal governo israeliano è l’eliminazione completa di Hamas (obiettivo già fallito per la semina di odio, primo concime di un nuovo reclutamento), ma nella sostanza il vero obiettivo è l’eliminazione, anche sotto forma di allontanamento o espulsione, della popolazione palestinese e il controllo stabile della Striscia. Se guardiamo alla storia del ‘900, tutto questo non è una novità: spesso si abusa della formula “pulizia etnica” mentre nel corso del vecchio secolo nel cuore dell’Europa, e non solo, si sono prodotti fenomeni di “sostituzione nazionale” ricercando una omogeneità etnica dentro perimetri e confini che avevano ospitato nazionalità, identità, confessioni religiose diverse.
L’Europa, intesa come la nostra civiltà liberale, ha fondato sulla convivenza e sul rifiuto del principio di omogeneità etnica l’intera seconda metà del ‘900. Anche per questo ciò che si consuma in questi mesi sotto i nostri occhi non è solo qualcosa che confligge con il diritto internazionale – dove, e anche questo va detto, prevalgono doppie morali insopportabili, pensiamo al silenzio sul Sudan con 30mila morti, 300mila senza acqua potabile e 12 milioni di sfollati – ma è anche la negazione delle ragioni che abbiamo usato a sostegno dell’identità europea dopo le tragedie del nazionalismo e delle guerre. Per tutto ciò penso che siamo di fronte a un balzo, o a una torsione, della storia e che questo imponga a ciascuno una reazione proporzionata alla tragedia in atto e allo strappo che la sorregge. In Parlamento abbiamo preso posizioni chiare, da ultimo con la mozione che ha previsto il riconoscimento dello Stato palestinese, ora si tratta di avanzare in una mobilitazione vasta e permanente contro il delitto che si va consumando. Perché di un peccato imperdonabile potremmo essere accusati da chi verrà dopo di noi: e sarebbe la colpa di avere taciuto. Evitiamolo, ammesso che siamo ancora in tempo.