26 Marzo 2025

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

1944, la nave inabissata a Rodi e la strage di italiani

Il cinisellese Francesco Verganti era tra i soldati italiani prigionieri dei tedeschi a Rodi e imbarcati su una nave poi naufragata

Una famiglia disperata, una sorella che instancabilmente cerca di conoscere la sua sorte, una fidanzata che lo aspetta inconsolabile, alcune sue lettere, un relitto in fondo al mare. E una croce di guerra al Valor Militare. Ecco cosa resta di Francesco Verganti. Nato nel 1917, abitava a Cinisello in via Milano 6 (oggi via della Libertà) e faceva il macellaio. Fu arruolato nell’esercito come sergente maggiore in forza al 9° Reggimento Fanteria di stanza a Rodi, all’epoca isola italiana.

Quando nel ‘48 a Cinisello fu inaugurata la lapide dei caduti della 2a Guerra Mondiale, il suo nome non compariva. Non poteva comparire perché i familiari non sapevano ancora nulla. Al Comune il verbale di scomparsa giunse undici anni dopo, il 31 marzo ‘55: “[…] Il militare era a bordo del Piroscafo di cui si sconosce il nome [Oria (NdA)], partito da Rodi nel pomeriggio dell’11 febbraio 1944 per il trasporto in deportazione di oltre 4000 prigionieri italiani in mano tedesca; che il detto Piroscafo naufragava la sera stessa [12 febbraio (NdA)] in prossimità dell’isola di Goidano [Patroklos (NdA)]; che il Sergente Maggiore Verganti Francesco non è compreso fra i pochi naufraghi recuperati e che di lui nulla si è saputo dalla data del sinistro; […] tutte le modalità del fatto inducono a ritenere che il medesimo sia perito nelle predette circostanze di tempo e di luogo […]”. Ma cosa era realmente accaduto a Francesco Verganti?

Nell’autunno del ‘43, dopo l’Armistizio, con l’arrivo dei nazisti sull’isola e la resa delle truppe italiane, i tedeschi iniziarono a trasferire via mare decine di migliaia di prigionieri destinati ai campi di concentramento per IMI (Internati Militari Italiani). Si trattava di militari che si erano rifiutati di aderire al nazismo e alla RSI (Repubblica Sociale Italiana). Questi trasferimenti venivano effettuati usando carrette del mare, ammassando i prigionieri oltre ogni limite e senza norme di sicurezza. Molte di queste imbarcazioni affondarono, causando la morte di 13 o forse 15 mila militari. In fondo al mare o dentro un lager per i nazisti era lo stesso; era la fine che meritavano i badogliani, cioè i traditori. Ma la vicenda più disastrosa fu sicuramente quella del piroscafo Oria, a bordo del quale c’era anche Verganti. Di fabbricazione norvegese, era stato requisito dai tedeschi facendo prigionieri gli uomini dell’equipaggio. Il comandante non voleva partire, sia per le pessime condizioni meteorologiche, che per il rischio di essere affondati dai britannici. Ma dovette sottostare agli ordini dei nazisti che lo fecero salpare l’11 febbraio ’44 diretto al porto de Il Pireo; a bordo 4046 prigionieri (43 ufficiali, 118 sottufficiali, 3885 soldati), 90 tedeschi di guardia, l’equipaggio e un carico di bidoni di olio minerale e gomme da camion.

Il giorno successivo, colto da una tempesta, l’Oria resistette fino a sera, ma con l’oscurità andò a cozzare contro uno scoglio e affondò presso Capo Sounion (Attica), dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicenti l’isola di Patroklos. Calò di poppa nei flutti, lasciando fuori dall’acqua la parte prodiera, incastrata nei massi. Solo il giorno seguente tre rimorchiatori italiani e due greci accorsero in aiuto, ma le proibitive condizioni del mare impedirono qualsiasi manovra. Il Vulcano riuscì a salvare un soldato che si reggeva ai cavi; gli altri rimorchiatori raccolsero qualche naufrago e alcuni cadaveri. Molti corpi furono trascinati dal fortunale sulla costa. Dentro le lamiere c’erano delle persone ancora vive e fu messa in opera la fiamma ossidrica per aprire un varco e strappare alla morte i naufraghi che invocavano soccorso. Purtroppo un colpo di mare strappò il suo apparato autogeno. Il giorno seguente il Titano, operando in condizioni di minore violenza marina, riuscì a liberare 5 uomini, che sembravano impazziti. Furono salvati solo 37 italiani, 6 tedeschi, 1 greco e 5 uomini dell’equipaggio. Si trattò di uno dei peggiori disastri navali della storia dell’umanità. Il peggiore nel Mediterraneo.

Nel ‘55 il relitto fu smembrato per recuperarne il ferro. I cadaveri di circa 250 militari, trascinati sulla costa e sepolti in fosse comuni, furono traslati nei cimiteri pugliesi e poi nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. I resti di tutti gli altri, incluso Franco Verganti, sono ancora là sotto, la tomba dimenticata di migliaia di militari italiani. Nel ‘99, grazie ad alcuni subacquei greci, coordinati da Aristotelis Zervoudis, la tragedia dell’Oria venne alla luce. Furono compiute varie immersioni e trovati numerosi reperti: cavi, bidoni del combustibile, ossa umane, un elmetto tedesco, una suola di scarpe, borracce, gavette sulle quali erano incise speranze e memorie. L’impatto emotivo di ciò che videro fu così forte che li spinse a coinvolgere la comunità locale per identificare il luogo della sepoltura dei corpi spiaggiati e proporre l’edificazione di un monumento. La comunità locale partecipò mettendo a disposizione dei fondi. Il monumento fu inaugurato il 9 febbraio 2014. Nel 2017 vi si recò in visita il presidente Mattarella, che nominò Zervoudis Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Nel frattempo, alcuni parenti delle vittime erano riusciti a rintracciare presso la Croce Rossa la lista degli imbarcati. Ritenuta inesistente, è stata per anni uno dei misteri dell’Oria, ma in realtà era scomparsa nei polverosi archivi italiani.

La tragedia si consumò in pochi minuti e fu ignorata per decenni. Eppure si sapeva come erano andate le cose. Ci sono le testimonianze dei sopravvissuti, come quella del sergente di artiglieria Giuseppe Guarisco, che nel ’46 redasse un resoconto del naufragio: “Dopo l’urto della nave contro lo scoglio venni gettato per terra e quando potei rialzarmi un’ondata fortissima mi spinse in un localetto situato a prua, sullo stesso piano della coperta, la cui porta si chiuse. In detto locale c’era ancora la luce accesa e vidi che vi erano altri sei militari. Dopo poco la luce si spense e l’acqua iniziò a entrare con maggior violenza. Salimmo in una specie di armadio per restare all’asciutto […]. Passammo la notte pregando, col terrore che tutto si inabissasse in fondo al mare”.

E a casa di Verganti? I familiari, disperati, senza notizie, si sentivano impotenti. La sorella Valentina inviò numerose lettere alle autorità, nella speranza di ritrovarlo. Scrisse anche a Guarisco: “Sia tanto buono, mi apra il cuore, mi dica con sincerità, l’ha visto? Da due anni siamo privi di sue notizie, in più posti ci siamo informati, ma nulla. Ma se proprio il destino fosse stato tanto crudele verso il mio caro fratello, reciterò il fiat voluntas tua e per lui pregherò. La prego, sia sincero, mi dica tutta la verità, [lei] parla a una sorella che con rassegnazione cristiana saprà affrontare tanto dolore”. Purtroppo Guarisco non fu in grado di dare informazioni in quanto, in quella confusione, non ricordava di averlo incontrato.

Con gli occhi sull’ultima lettera di Franco, scritta un mese prima dell’imbarco, i familiari nutrirono per anni la speranza che fosse riuscito a fuggire: “Cari vecchietti, la mia salute è ottima e la vita è più che buona, sono addetto al vettovagliamento, perciò voglio sperare che non abbiate preoccupazioni. Mi raccomando, cara mammetta e caro paparino, di essere tranquilli e pensare a star bene voi, che se vi penso allegri io mi sento rinascere”. Alla fidanzata: “Carissima Antonia mi sei sempre presente e ti voglio tanto bene. Un grosso bacione e un abbraccio. Tuo per sempre. Franco”.

Nel ’97 Cinisello ricordò i militari dispersi con un bassorilievo collocato nell’atrio del Comune, dove figura anche il nome di Verganti. Ma per la famiglia il ricordo più caro di Franco rimane, oltre alle sue numerose foto e lettere, uno scatto fotografico che prima di partire volle fare a tutti i suoi familiari riuniti. I Verganti, che erano i gestori del Caffé di Baüscia che si trovava in via Milano (oggi via della Libertà), si riunirono proprio di fronte al Caffé, all’angolo con piazza Turati, dove al tempo c’era la fermata del tram. Tra gli altri, sono immortalati la madre, la signora con i capelli bianchi a destra, dietro di lei la sorella Valentina e accanto la fidanzata Antonia. Una copia della foto rimase ai familiari e una la portò con sé per averli accanto durante la sua permanenza nei teatri di guerra. Quell’immagine, a lui molto cara, che probabilmente conservava gelosamente in tasca, finì con Franco in fondo al mare della Grecia.

Per approfondimenti: https://piroscafooria.it/

https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article83.

Nella prima fotografia: Franco Verganti con la fidanzata.

Grazie a Emanuela Sala.

Patrizia Rulli

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