L’antica attrazione del tiro a segno nella festa degli “Ufizi de Cinisell”
La seconda domenica di Quaresima si festeggia l’ “Ufizi de Cinisell”. Quella di Cinisello era un tempo una festa rinomata in tutta la provincia e nessuno voleva perdere questa occasione tanto attesa, specialmente in anni in cui ben pochi erano i momenti di svago. La domenica si teneva la sagra nella grande piazza e il lunedì la festa diventava religiosa e si celebrava il rito dei defunti, anche se la piazza continuava a essere animata. Secondo Alberto Scurati, la festa, che si celebrava dal 1885, raggiunse il suo maggior successo negli anni Venti e Trenta.
Nel periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale l’affluenza rimase ancora molto alta, con numeri sempre crescenti fino agli anni Settanta quando, col rifacimento della piazza, le giostre dovettero adattarsi a una sistemazione più periferica e anche l’ “Ufizi” perse gradatamente il suo ruolo attrattivo. Ma qui mi piace ricordare i tempi in cui in piazza Gramsci (un tempo piazza Comunale e in seguito Vittorio Emanuele) giungevano ancora i grandi carrozzoni multicolori e il loro arrivo era atteso con ansia. Ci si divertiva, ci si incontrava, ci si metteva alla prova, ci si sfidava. Uno dei divertimenti era il “Tiro fotografico”.
A partire dagli anni Trenta tutti i parchi divertimento e le sagre di paese si dotarono di un chiosco in cui si praticava il “Tiro foto” che sperimentò con successo la fusione tra due attrazioni fino a quel momento separate: il classico tiro a un bersaglio (spesso costituito da un insieme di barattoli che dovevano essere colpiti da una palla di segatura) e la fotografia ad opera di un esperto professionista che svolgeva la sua attività all’interno di un chiosco attrezzato.
L’invenzione del lampo di magnesio, che permetteva di lavorare senza le interruzioni causate dall’assenza della luce naturale, diede infatti luogo a una nuova possibilità che lusingava l’amor proprio del tiratore, in quanto lo immortalava nel momento in cui colpiva il bersaglio. Grazie al nuovo sistema, il tiratore, con una carabina ad aria compressa, doveva puntare a un piccolo pulsante posto a una distanza di alcuni metri e, se riusciva a centrarlo, si innescava automaticamente il contatto elettrico che faceva esplodere il lampo di magnesio. Contemporaneamente la macchina fotografica scattava la fotografia, che dopo un’ora sarebbe stata consegnata al provetto tiratore.
I lampi del flash segnalavano al pubblico delle fiere che qualcuno aveva appena conquistato il suo premio. “Ogni colpo 10 lire, ogni centro una foto, il miglior ricordo della fiera”, gridava in un vecchio film una donna dal suo chiosco per invitare i passanti a cimentarsi nella prova. Quell’immagine valeva più di qualsiasi coppa perché costituiva la testimonianza visiva della propria abilità ed era molto ambita, tanto che alcuni, dopo numerosi e vani tentativi, arrivavano a convincere la commessa (dietro il pagamento di un compenso) a pigiare il pulsante che azionava il meccanismo, così da procurarsi l’agognata foto da esibire ad amici e fidanzata.
Quante fotografie formato cartolina, leggermente sfocate o con troppa luce, saranno venute fuori da quelle macchinette? Una montagna sicuramente, perché quel sistema con il lampo di magnesio continuò fino agli anni Sessanta quando l’invenzione della Polaroid (che aveva il flash incorporato e permetteva lo sviluppo immediato dell’immagine con pellicole a colori ultrasensibili) rese tutta l’operazione molto più semplice e veloce. Ora tutto avveniva automaticamente, ma forse così questa piccola prova di abilità stava perdendo la sua magia.
Anche a Cinisello era presente il chiosco per il “Tiro foto”, che in alcuni anni recava la scritta “Tiro Winchester” (dalla marca di una carabina). In tanti a casa conservano ancora le fotografie scattate durante le sagre. Negli scatti appare il tiratore mentre punta il fucile con l’occhio socchiuso nello sforzo di prendere la mira. Intorno a lui si scorgono i volti di amici e parenti, anch’essi immortalati nelle più varie espressioni: sorridenti, irridenti, talvolta pronti a qualche gesto di scherno. In qualche caso uno stesso tiratore accumulava numerose immagini e così era possibile vedere lui stesso, e le persone che gli stavano intorno, cambiare nel tempo e lentamente invecchiare.
C’erano anche le donne, benché un tempo non era usuale vedere una donna misurarsi nel tiro a segno. A Cinisello non sono mancate signore e signorine che vi si sono cimentate, ma il loro numero ridotto le fa sembrare più l’eccezione che conferma la regola. Chissà cosa avranno pensato gli uomini intorno, certamente meravigliati e anche invidiosi delle loro abilità. Queste fotografie costituiscono la testimonianza di una realtà da poco trascorsa, ma già così lontana. In un mondo in cui è possibile avere in pochi minuti decine di nostre immagini nelle più diverse pose, queste foto hanno il colore seppiato del tempo irrimediabilmente trascorso; ma forse anche per questo ci sono care.
In un periodo di tristezza come quello che stiamo vivendo, ricordare l’allegrezza delle feste di paese, i bambini sulle giostre, i ragazzi che si cimentano nei vari giochi delle sagre, ci rimanda a una delle cinquantacinque città descritte da Italo Calvino nel romanzo “Le Città invisibili”. “La città di ‘Sofronia’ si compone di due mezze città. In una c’è il grande ottovolante dalle ripide gobbe, la giostra con la raggiera di catene, la ruota delle gabbie girevoli, il pozzo della morte con i motociclisti a testa in giù, la cupola del circo col grappolo dei trapezi che pende in mezzo. L’altra mezza città è di pietra e marmo e cemento, con la banca, gli opifici, i palazzi, il mattatoio, la scuola e tutto il resto. Una delle mezze città è fissa, l’altra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è finito la schiodano, lasmontano e la portano via, per trapiantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città.
Così ogni anno arriva il giorno in cui i manovali staccano i frontoni di marmo, calano i muri di pietra, i piloni di cemento, smontano il ministero, il monumento, i docks, la raffineria di petrolio, l’ospedale, li caricano sui rimorchi, per seguire di piazza in piazza l’itinerario d’ogni anno. Qui resta la mezza ‘Sofronia’ dei tirassegni e delle giostre, con il grido sospeso dalla navicella dell’ottovolante a capofitto, e comincia a contare quanti mesi, quanti giorni dovrà aspettare prima che ritorni la carovana e la vita intera ricominci.”
Nel mondo immaginario e capovolto di “Sofronia” tutto ciò che diamo per futile, momentaneo, accessorio acquista un ruolo di primo piano e il divertimento diventa una cosa seria, stabile, duratura. I tendoni, le giostre, i chioschi restano, mentre gli edifici del lavoro e dei nostri impegni quotidiani vengono smontati e se ne vanno.
Oggi vorremmo che fosse così, vorremmo cioè un mondo capovolto dove fantasia e sogno ci possano tenere al riparo dalle preoccupazioni. Vorremmo poter smontare la città del dolore e della paura, la città dei lockdown e del suono delle ambulanze, per lasciare spazio alla città del divertimento, quella dei venditori di “firun”, di dolci, di zucchero filato e manna, quella delle giostre, delle rappresentazioni teatrali e del cinema. Sì, il cinema, che tanto ci manca. Nato nel 1895 grazie ai fratelli Lumière, l’anno dopo vide i suoi esordi proprio a una fiera annuale, quella di Porta Genova a Milano, in un padiglione in cui per pochi centesimi era possibile vedere il cinematografo.
E la fantasia e il sogno furono ispiratrici del primo parco di divertimenti situato a Coney Island, a cui fu dato il nome di “Luna Park” prendendo spunto da “A trip to the moon” (“Viaggio sulla luna”), un’attrazione ideata dai fondatori che consisteva nella navicella di una giostra, su cui salivano i visitatori paganti, che era denominata dal latino “luna” (in inglese “moon”). Attraverso questa navicella alata, il pubblico veniva trasportato in un viaggio immaginario sulla luna.
Ecco, oggi lasciateci sognare “A trip to the moon” e la città capovolta di “Sofronia”! In fondo i sogni aiutano a vivere e ben lo sanno i “pescaluna de Cinisell”, la cui leggenda narra di un abitante del luogo che, munito di rastrello, cercava di pescare la luna riflessa in un laghetto. Un racconto immaginario e poetico della tradizione che è stato riproposto in quello che per noi rimane l’inno di Cinisello, scritto e interpretato da Roberto Bobo Pozzoli.
Liberamente tratto da “Selfie di un tempo. Nel mirino del tiro a segno i volti dei cinisellesi di ieri”, testi di Gabriella Milanese e Patrizia Rulli
Un commento
bellissimo articolo
grazie