3 Novembre 2024

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

Il “Giorno del Ricordo”, tra storia e revisionismo

di Ottavio D’Alessio Grassi

Sulla tragedia delle foibe per molti anni è calato l’oblio. Sono le parole che ripetutamente vengono pronunciate da molti esponenti politici, specialmente di destra, in occasione delle commemorazioni del “Giorno del Ricordo”, istituito nel 2004. È vero, tra le tante tragedie prodotte dalla 2^ guerra mondiale, ci fu anche questa: l’esodo di circa 300 mila persone di origine italiana, che vivevano in Istria e Dalmazia, e le violenze, in un clima da resa dei conti, culminate con alcune migliaia di persone uccise e gettate nelle foibe. Una tragedia, nella tragedia di quella guerra.

Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che promulgò la legge, nel 2005 emise un comunicato nel quale rivolse il proprio pensiero “a coloro che perirono in condizioni atroci nelle Foibe (…) alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e Dalmazia”, ma aggiungendo: “Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi totalitari responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono”.

Nonostante la ricerca storica abbia sufficientemente chiarito i complessi avvenimenti legati al confine orientale, la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione rimane distorta e fatta oggetto di polemiche politiche orchestrate che, ingigantendo o sminuendo fatti storici in base a convenienze ideologiche, finiscono con l’infoibare la Storia e la memoria stesse. La mescolanza paludosa tra aggressori e aggrediti, invasori e invasi, carnefici e vittime, criminali e
innocenti con cui, da parte di costoro, viene rivisitata la Storia, svela il proposito, neppur tanto celato, ma alquanto grottesco, di annacquare l’Olocausto provocato dal nazifascismo accostandolo anche terminologicamente alle violenze subite dagli abitanti di lingua italiana, che vivevano nei territori della ex-Jugoslavia.

E quando il doveroso omaggio a chi, innocente, perse la vita si trasforma in occasione di propaganda revanscista di partiti o gruppi politici che non hanno mai voluto fare i conti col proprio tragico passato, le prime vittime sono proprio le vittime stesse, cioè quelle per cui il “Giorno del Ricordo” è stato istituito, usate e abusate strumentalmente in una sorta di delirio nostalgico o neo-irredentista. Non stupisce che, di fronte ai numerosi tentativi di revisionismo storico o persino di rivalutazione dell’esperienza fascista, cresca in maniera preoccupante il numero di italiani che negano la Shoah o che ne ridimensionano la portata. Queste operazioni hanno gioco facile anche per le carenze dell’insegnamento scolastico che, per molte generazioni di studenti dal dopoguerra in poi, ha trascurato la storia del fascismo, del nazismo e della Resistenza. E allora diventa doveroso ricostruire, coi limiti di una rigorosa sintesi, le vicende del fronte orientale.

Il 5 novembre del 2001 sul quotidiano “Il Piccolo” di Trieste venne pubblicata una testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924: “Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 (…) ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c’erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. (…) ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finché vivrò. (…) Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le
foibe ove far sparire i loro avversari (…)”.

Già questa testimonianza, di un italiano che viveva in Istria, certifica un altro oblio, ancor più grande, di un periodo durato due decenni, da quando cioè, in seguito al “Trattato di Rapallo”, alcuni territori costieri della ex Jugoslavia vennero assegnati all’Italia e governati dai fascisti, i quali attuarono a partire dagli anni Venti una forzata e violenta politica di italianizzazione degli abitanti di etnia slava, che furono fatti oggetto di espropri e deportazioni o si videro costretti, a migliaia, a lasciare le proprie terre. Fu cambiata la toponomastica, la lingua slava venne proibita nelle scuole e in tutti i luoghi pubblici, sulla stampa, nelle chiese, la gente fu costretta a italianizzare persino i propri nomi, addirittura a non poter più usare la propria lingua sulle lapidi dei cimiteri.

Coloro che si ribellarono a queste imposizioni vennero internati dalle “camicie nere” in campi di concentramento, le loro case rase al suolo, i villaggi bruciati, confiscati i beni, e i componenti di numerose famiglie fucilati per estrazione a sorte, come rendeva noto lo stesso prefetto della provincia del Carnaro, Temistocle Testa, il 30 maggio del 1942. Una vera e propria bonifica etnica, entrata in azione dopo il discorso di Mussolini a Pola il 20 settembre del 1920: “Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara”. Oblio e rimozione, dunque, di una tragedia non certamente iniziata con la scoperta delle foibe, ma anche sugli eccidi perpetrati a danno delle popolazioni jugoslave nel corso dell’invasione dell’aprile del ’41 delle forze armate italiane e tedesche, che occuparono l’allora Regno di Jugoslavia. Nelle nostre associazioni mentali i lager portavano i nomi di Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Buchenwald. Campi nazisti. Rab e Gonars non avevano quella firma. A volerli erano stati gli alti comandi militari italiani, il generale Mario Roatta in particolare, comandante della II Armata, un criminale di guerra responsabile di aver ordinato massacri indiscriminati di civili.

In una delle sue circolari operative, scriveva “Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia
completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto…”. Divenne famoso, a pieno merito, per la teoria della “testa per dente”. Cioè quella che autorizzava la rappresaglia contro i civili. I suoi ordini diedero il via a veri e propri massacri nei confronti delle popolazioni locali, colpevoli di aiutare la resistenza contro l’occupazione militare straniera. Internamento di intere famiglie, uso di ostaggi, distruzione di abitati e confisca dei beni. Norme di condotta militare che nulla avevano da invidiare alle pratiche naziste. I villaggi sospettati di fornire aiuto ai partigiani jugoslavi venivano perciò bruciati e i loro abitanti fucilati. In alcune
lettere di militari fascisti a parenti e amici sono “orgogliosamente” descritte, con dovizia di particolari raccapriccianti, le crudeltà di quelle operazioni.

Soltanto a Rab vennero deportati più di diecimila civili. Sloveni, croati, rastrellati dalle loro case, spesso dopo avergliele incendiate. Uomini, donne, anziani, bambini. C’erano più di mille bambini a Rab. Per la fame, il freddo, gli insetti, le malattie, la mortalità diventò presto elevatissima, in particolare per i bambini, i vecchi, le donne, alcune delle quali erano partorienti. Le persone morivano a decine ogni giorno. “Odiate questo popolo. Esso è quel medesimo popolo contro il quale abbiamo combattuto per secoli sulle sponde dell’Adriatico. Ammazzate, fucilate, incendiate e distruggete questo popolo”. Così scrisse il generale d’Armata Alessandro Pirzio Biroli, un criminale di guerra, che la fece franca come tanti altri, per i quali non vi fu mai una Norimberga.

Quando le guerre finiscono, i Paesi coinvolti commemorano con cerimonie ufficiali i morti, militari e civili. Non tutti però, soltanto i propri. È giusto piangere i propri caduti, come ogni anno si fa nelle celebrazioni a ricordo delle due guerre mondiali, che hanno visto il sacrificio di tanti. Lo si fa con la consapevolezza che, per quanto riguarda i militari, per la maggior parte si trattò di povera gente, mandata al macello a uccidere altra povera gente, per i sogni di gloria di un manipolo di criminali fanatici. Ma quanto sarebbe diverso, nuovo e dirompente se un giorno decidessimo di piangere anche i morti altrui, le vittime delle tante “Marzabotto” provocate in terra straniera. Di lenire – per quanto sia possibile farlo – i dolori inflitti agli altri, come conseguenza delle nostre aggressioni. Quale messaggio di pace sarebbe! E di riconciliazione.

Non sarebbe questo il modo più giusto di fare i conti con la propria Storia? E per fare verità? Un modo che spazzerebbe via una volta per tutte le strumentalizzazioni di questi anni intorno alla tragedia delle Foibe, che non sono servite ad altro che a rafforzare, da una parte l’autoreferenzialità di chi le ha sempre volute, dall’altra a tenere accese le braci residue di quell’incendio. I tedeschi l’hanno fatto, in parte forse, ma l’hanno fatto. Anche nei confronti di noi italiani. Alcuni gesti si sono visti: alti rappresentanti istituzionali in visita a Marzabotto, a S.Anna di Stazzema e
altrove. Gesti simbolici, certo, altro non si può pretendere da figli e nipoti di una generazione smarritasi nel fanatismo e nel mito della superiorità della razza. Non si ha invece memoria di molti gesti analoghi dei nostri rappresentanti istituzionali verso i popoli della ex Jugoslavia, Grecia, Albania, Libia, Etiopia, Russia. Tutti quei popoli, cioè, a cui per la gloria dell’impero, abbiamo inflitto dolore.

La guerra su quel fronte ha coinvolto anche la nostra città. Tra coloro che partirono per il fronte dei Balcani, alcuni non sono più tornati. Altri, a rischio della vita, scelsero di combattere coi partigiani jugoslavi. Vi sono tante ragioni per trasformare le celebrazioni del “Giorno del Ricordo” in un’occasione di riconciliazione con quei popoli. Quale circostanza migliore per fare qualcosa di diverso: simboli, gesti concreti, iniziative congiunte.

La nostra città, che come tante altre ha dato il proprio tributo di sangue per la Lotta di Liberazione, potrebbe dare l’esempio. Potrebbe costruire una nuova piccola grande Storia. E, chissà, dare il via a tante altre piccole grandi Storie. Sarebbe un modo per tessere un’immensa ragnatela di pace a partire dal basso, dalle comunità, dai cittadini, dagli studenti. Una ragnatela in cui imprigionare nuovi fanatismi e nazionalismi, cogliendo anche l’occasione (perché no?) di rivisitare culturalmente il concetto di patria. Perché è del tutto evidente che quello di patria non può essere in alcun modo un concetto divisivo, escludente delle legittime patrie altrui. Non poteva esserlo prima, ma soprattutto non potrà più esserlo in futuro per l’Europa che vogliamo.

Redazione "La Città"

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Un commento

  • Articolo interessante e… Toccante! Per la completezza della informazione è necessario chiarire e spiegare il ruolo e le azioni non proprio blande e democratiche della presenza delle armate di Tito. Perché molti..quando sentono parlare di Foibe dicono “ah.. I massacri dei comunisti. di Tito..” penso che sia bene fare chiarezza, perché la verità nella storia divenga “Magistra vitae”

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